LE PATOLOGIE DELLA COLONNA VERTEBRALE
LAVORO CORRELATE
Tratto da :www.inail.it/cms/Medicina...e...IV.../bernardini.doccon
Condiviso con tanto amore e senso di giustizia per tutti quei malati sofferenti senza risposte certe. Raymond
Pierluigi Bernardini
Università
Cattolica del Sacro Cuore - Roma.
Istituto
di Medicina del Lavoro
INTRODUZIONE
Le patologie della colonna vertebrale correlate al lavoro occupano un ruolo preminente nel contesto delle malattie da lavoro dell’apparato locomotore, generalmente denominate muscoloscheletriche, ma che coinvolgono non solo muscoli ed ossa, ma anche cartilagini, capsule articolari, legamenti, tendini, borse, guaine, nervi, vasi.
Sempre
più spesso tali affezioni sono messe in rapporto con attività
lavorative caratterizzate da un prolungato ed intenso impegno
funzionale dei distretti articolari del rachide.
Si tratta di patologie a genesi multifattoriale, essendo riscontrabili anche nella popolazione non esposta a rischi lavorativi, in conseguenza di fattori causali locali o generali, quali pregressi traumatismi, invecchiamento, patologie dismetaboliche, sedentarietà, eccesso ponderale, attività sportive e ricreative, ecc.
Si tratta di patologie a genesi multifattoriale, essendo riscontrabili anche nella popolazione non esposta a rischi lavorativi, in conseguenza di fattori causali locali o generali, quali pregressi traumatismi, invecchiamento, patologie dismetaboliche, sedentarietà, eccesso ponderale, attività sportive e ricreative, ecc.
Il
mal di schiena o low back pain (LBP) è la forma più frequente di
patologia della colonna vertebrale: in un editoriale di Lancet del
1999 si legge che almeno una volta nel corso della vita 8 persone su
10 sono destinate a soffrirne in maniera significativa, e 3 su 10 ne
hanno sofferto nel corso dell’ultimo anno. Secondo l’Agenzia
Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro in Europa soffrono
ogni anno di LBP il 30 % dei lavoratori, il che corrisponde a circa
44 milioni di persone.
Vari
elementi spingono a ritenere che si tratta di un fenomeno in
espansione, perchè molti dei fattori causali, quali la sedentarietà,
tendono ad aumentare, che va valutato anche come costi sociali ed
economici che incidono su bilanci, strategie occupazionali e
politiche socio-economiche.
Negli
Stati Uniti il LBP costituisce, secondo il NIOSH, la seconda causa di
richiesta di riconoscimento di danni da lavoro, è la principale
causa di disabilità e di perdita di giornate lavorative per i
lavoratori con meno di 45 anni e costituisce un terzo delle spese di
risarcimento per malattie da lavoro. Statistiche inglesi ed americane
indicano che su 100 lavoratori ogni anno si perdono circa 30 giorni
di lavoro a causa di LBP.
In
Italia, secondo dati ISTAT del 2000, le malattie degenerative della
colonna rientrano ai primi posti nelle cause di riconoscimento di
pensioni di invalidità dell’INPS e di invalidità civile. I
ricoveri ospedalieri per malattie dell’apparato osteoarticolare
(esclusa la traumatologia) in istituti di cura per acuti per persone
di età compresa tra 15 e 64 anni, fascia che comprende la
popolazione lavorativa attiva, sono stati 300.000 (su un totale
nazionale di 9,4 milioni di ricoveri) con una durata media di degenza
di 15 giorni.
Dal
punto di vista assicurativo le patologie della colonna vertebrale
afferiscono all’INAIL come infortunio sul lavoro, o come malattia
professionale non tabellata che, per essere accettata come tale viene
sottoposta ad una sorta di istruttoria nelle sedi periferiche e ad
una valutazione definitiva presso la Sovrintendenza Medica Generale.
Nella
tab.1 sono indicati gli infortuni a carico della colonna relativi al
1999, in rapporto agli esiti (invalidità temporanea, permanente,
morte) ed in rapporto ai settori lavorativi. Ai fini della
valutazione delle patologie da sovraccarico biomeccanico correlate al
lavoro è evidente che i dati della tabella hanno solo un valore
indicativo, in quanto si riferiscono al totale degli infortuni sul
lavoro che hanno interessato la colonna indipendentemente dalla causa
(quindi comprendono anche il gran numero di traumi diretti), tuttavia
permettono di individuare l’ordine di grandezza e la gravità del
problema. Il LBP acuto verosimilmente si inserisce nel contesto dei
circa 60.000 infortuni che causano inabilità temporanea, mentre le
ernie discali tra i circa 5000 infortuni con esiti permanenti.
Tabella
1 Infortuni a carico della colonna vertebrale,
riconosciuti
dall’INAIL, avvenuti nel 1999
|
||||
Inabilità
Temporanea |
Inabilità
Permanente |
MORTE
|
Totale
|
|
Agricoltura
|
4731
|
551
|
11
|
5293
|
Industria
e servizi
|
58045
|
2431
|
50
|
60526
|
Aziende
artigiane
|
11137
|
792
|
20
|
11949
|
Altre
aziende
|
44872
|
1560
|
29
|
46461
|
Totale
|
118785
|
5334
|
110
|
68996
|
Nella tabella 2 sono indicati gli infortuni sul lavoro riconosciuti dall’INAIL riferiti all’anno 1998, caratterizzati dalla forma di accadimento “sollevando e spostando con sforzo” e suddivisi in rapporto agli esiti ed ai settori lavorativi. Il LBP si inserisce in questo caso nel contesto dei 35000 accadimenti che si sono risolti senza esiti; le ernie discali da sforzo verosimilmente tra i 900 infortuni con esiti.
Tabella
2 Infortuni indennizzati dall’INAIL, accaduti nel 1998,
“Sollevando e spostando con forza”
|
||||
Inabilità
Temporanea |
Inabilità
Permanente |
MORTE
|
Totale
|
|
Agricoltura
|
1900
|
93
|
1
|
1994
|
Industria
e servizi
|
17339
|
442
|
1
|
17782
|
Aziende
artigiane
|
3530
|
161
|
1
|
3692
|
Alte
aziende
|
13027
|
264
|
13291
|
|
Totale
|
35796
|
960
|
3
|
36759
|
Nella
tab.3 sono indicate le malattie professionali da sovraccarico
biomeccanico del rachide espresse come numero di casi esaminati dalla
Sovrintendenza Medica Generale negli ultimi 7 anni. Appare evidente
che si tratta di un fenomeno in netto incremento, anche se la sua
dimensione globale rimane ancora molto contenuta.
Tabella
3 Malattie professionali da sovraccarico biomeccanico del
rachide valutate presso la Sovrintendenza Medica Generale
dell’INAIL
|
||||
Pareri
espressi
|
Pareri
Accolti
|
Pareri
respinti
|
Ulteriori
accertamenti
|
|
1996
|
36
|
1
|
35
|
0
|
1997
|
40
|
3
|
31
|
6
|
1998
|
63
|
14
|
22
|
27
|
1999
|
81
|
19
|
40
|
22
|
2000
|
209
|
60
|
99
|
50
|
2001
|
206
|
52
|
105
|
49
|
6/2002
|
168
|
46
|
90
|
32
|
PATOLOGIE CRONICHE DA SOVRACCARICO BIOMECCANICO
La
parte prevalente delle patologie della colonna lavoro correlate
riguarda la cosiddetta spondilodiscoartrosi. Con questo termine si
intendono le alterazioni cronico-degenerative della colonna, in
genere a carattere evolutivo, che consistono inizialmente in
alterazioni regressive del disco intervertebrale (discopatia
degenerativa di Putti) e secondariamente in alterazioni della
cartilagine che riveste i corpi vertebrali che causa, a sua volta,
modificazioni delle strutture ossee nella parte anteriore dei singoli
corpi vertebrali (artrosi intersomatica) e posteriore
(interapofisaria).
Il
disco intervertebrale è composto da una robusta struttura
periferica, formata da lamelle concentriche di fibre collagene ed
elastiche, e da un nucleo polposo costituito da una massa gelatinosa
sferoidale che assorbe le sollecitazioni meccaniche che riceve e le
ridistribuisce in maniera uniforme su tutte le strutture
osteoarticolari contigue.
L’elemento
critico che rende particolarmente vulnerabile il disco dipende dal
fatto che si tratta di una struttura del tutto priva di irrorazione
sanguigna, pertanto gli scambi metabolici avvengono solo per un
delicato equilibrio tra processi di diffusione semplice per i quali
le forze oncotiche ed osmotiche della parte interna del disco
tendono a richiamare liquidi nutrienti all’interno e la pressione
meccanica che tende a far fuoriuscire liquidi e soluti all’esterno.
Quando il disco sottoposto a carico la pressione oncotica interna
aumenta per la fuoriuscita di acqua e di conseguenza, una volta
cessato il carico, il flusso si inverte ed acqua e nutrienti passano
dal liquido articolare all’interno del disco. E’ evidente che
tutto il meccanismo è basato sull’alternarsi equilibrato di
pressione/depressione, dunque se questo equilibrio si altera, come
nel caso di pressioni eccessive o posture fisse prolungate, tutto il
meccanismo di nutrizione del disco viene a decadere. Vari elementi
portano a ritenere che la condizione di requilibrio del meccanismo si
attua nella posizione in piedi, mentre durante la posizione distesa
prevalgono le forze oncotiche ed osmotiche.
Sin
dall’adolescenza il contenuto idrico del disco tende a ridursi e
dopo i 20 anni le lamine dell’anulus tendono a frammentarsi e
distanziarsi e le fibre di collagene contenute nel nucleo tendono a
precipitare e trasformarsi in un tessuto fibrotico; dopo i 40 anni il
nucleo polposo è quasi indistinguibile dall’anulus e già da
questa età il disco presenta una struttura quasi omogenea, è povero
di acqua, poco elastico, assottigliato. La perdita di elasticità e
di spessore riducono la capacità di assorbire e redistribuire gli
stress meccanici e causano una protrusione del disco oltre il suo
normale perimetro (bulging disk).Gli stress meccanici si concentrano
allora sui bordi dei corpi vertebrali, alterano le membrane limitanti
e determinano lo sviluppo di osteofiti a becco, ad uncino, a rostro;
l’intera membrana limitante discosomatica cartilaginea presenta
chiazze distrofiche, assottigliamenti, fissurazioni, ulcere ,
associate ad osteosclerosi subcondrale (addensamento del tessuto
osseo nelle zone di cartilagine usurata) e cavità pseudocistiche
nelle zone osteosclerotiche (geoidi).
Nelle
fasi avanzate di danno il disco intervertebrale risulta tanto
indebolito da consentire alla vertebra sovrastante di scivolare in
avanti ed a quella sottostante di dislocarsi in dietro in una sorta
di sublussazione e di listesi che provoca inesorabilmente
ipersollecitazione delle articolazioni interapofisarie posteriori,
con restringimento della rima articolare, alterazioni della
cartilagine e della membrana sinoviale ed apposizioni osteofitiche
sui processi articolari.
I
fenomeni artrosici possono determinare dolore locoregionale,
lombalgia e cervicalgia, e limitazioni dell’escursione articolare
da ostacolo meccanico e da contrattura muscolare antalgica.
Il
dolore locoregionale costituisce il principale correlato clinico
dell’artrosi della colonna, tuttavia manca del tutto l’evidenza
che alle alterazioni morfologiche dell’osso rilevabili
radiologicamente debba coincidere necessariamente una sintomatologia
dolorosa, nel senso che possono esistere manifestazioni dolorose
gravi senza alterazioni del quadro radiologico, così come possono
esistere gravi segni radiologici di artrosi senza il corrispettivo
clinico di dolore; né tanto meno esiste una correlazione tra gravità
delle alterazioni morfologiche e gravità dei sintomi. Ciò si spiega
con il fatto che i sintomi non dipendono dall’entità dei fenomeni
morfologici, ad esempio dagli osteofiti, quanto dai rapporti che gli
osteofiti contraggono con le strutture sinoviali, nervose e
vascolari. Solo con l’avvento della TC e della RM, che consentono
di visualizzare direttamente tali strutture, è stato possibile
definire con maggiore precisione le basi fisiopatologiche del dolore.
Infatti
il dolore trae origine dall’irritazione o dalla compressione delle
fibre del plesso nervoso endorachideo che si distribuiscono alla
porzione periferica dell’anulus fibroso, al legamento longitudinale
posteriore, al periostio che ricopre i corpi vertebrali e l'arco
posteriore, ligamenti gialli interlaminari, alle formazioni
capsuloligamentose delle articolazioni apofisarie. Da ciascuna di
queste sedi può trarre origine il dolore.
La
sintomatologia dell’artrosi vertebrale può complicarsi con
- Stenosi vertebrale acquisita da spondilodiscoartrosi, ovvero un restringimento mono o plurisegmentario del canale vertebrale che può comportare la compressione delle radici spinali (sindromi radicolari) o del midollo (sindromi midollari). I fattori causali sono costituiti da osteofitosi dei corpi vertebrali; osteofitosi, ipertrofia o sublussazione delle faccette articolari; protrusione (bulging) dei dischi intervertebrali; ernia discale posteriore; iperplasia o calcificazione dei ligamenti gialli; ossificazione del ligamento longitudinale posteriore; ipertrofia degenerativa dei ligamenti inter-vertebrali. La stenosi vertebrale acquisita si affianca alle forme idiopatiche, in cui il canale vertebrale appare di dimensioni ridotte per cause congenite, ed alle forme acquisite causate da traumi o da localizzazioni neoplastiche mielomatose o carcinomatose, meningiomi e neurinomi. La stenosi vertebrale può causare sintomi da mielopatia compressiva, più frequentemente a livello cervicale; a livello lombare può causare compressioni del cono midollare o della cauda equina.
- Sindromi radicolari (cervicobrachialgia e lombosciatalgia) quando gli osteofiti sviluppati nei pressi del forame di coniugazione comprimono o irritano la radice nervosa (più spesso C6, C7, L4, L5 )che occupa quel forame.
- Sindromi vascolari tra cui la Sindrome di Neri-Barrè-Lieu, caratterizzata da compressione delle arterie vertebrali che decorrono nei forami intertrasversari cervicali, ad opera di osteofiti che si sviluppano sui bordi laterali delle ultime vertebre cervicali. Si tratta di una rara sindrome, attualmente molto ridimensionata come incidenza, forse troppo spesso evocata in caso di algie nucali e disturbi dell’equilibrio.
Topograficamente
l’artrosi del rachide si suddivide in artrosi cervicale, dorsale e
lombare, cui corrispondono i quadri clinici di cervicalgia,
toraco-algia (relativamente rara), la lombalgia, la lombosciatalgia,
la lombocruralgia.
La cervicalgia
Si tratta di una affezione molto frequente che consiste in un dolore in regione cervicale irradiato più spesso alla nuca, ai muscoli cucullari, alle spalle. Nella forma acuta insorge in concomitanza di un movimento brusco, o di una perfrigerazione; i muscoli paravertebrali sono spesso contratti con deviazione secondaria in cifosi o scoliosi del rachide cervicale. La causa è analoga a quelle della lombalgia, ed è costituita da uno stimolo meccanico esercitato da una protrusione del disco o da osteofiti sulla parete dello speco vertebrale, innervata dal plesso nervoso endorachideo, ed in partricolare sull’anulus fibroso, sul legamento longitudinale posteriore, sulla parete anteriore del sacco durale, sulle capsule delle articolazioni apofisarie posteriori.
B) La cervicobrachialgia
Il
dolore cervicale può irradiarsi dal collo verso un arto superiore
per irritazione o compressione di una radice spinale. La causa può
essere un’ernia discale posterolaterale, o da una salienza
dell'anulus associata a produzioni osteofitiche. Si tratta di un
problema non frequente che coinvolge il sesso maschile con rapporto
2/1. Gli spazi discali interessati sono quello C6-C7 e meno
frequentemente C5-C6.
I
sintomo rachidei sono quelli della cervicalgia, più accentuati; i
segni periferici sono i seguenti:
Disco
C6-C7 che comprime la radice C7: Dolore, parestesie ed ipoestesia
che si distribuiscono alla nuca, alla regione interscapolare, alla
faccia posterolaterale del braccio e dell’avambraccio, al dito
indice ed al medio. Coesiste ipovalidità dei muscoli grande
pettorale, grande dorsale, tricipite, estensori del carpo e selle
dita. E’ indebolito il riflesso tricipitale.
Disco
C5-C6 che comprime la radice C6: dolore, parestesie ed ipoestesia che
si distribuiscono alla faccia antero mediale del braccio e
dell’avambraccio fino al pollice. Coesiste ipovalidità dei muscoli
grande pettorale bicipite, brachiale anteriore, pronatore rotondo.
Sono indeboliti i riflessi bicipitale e radioflessore.
Nella
diagnosi differenziale vanno presi in considerazione le sindromi da
dello stretto sopraclaveare (costa cervicale, sindrome dello scaleno)
che possono irritare il tronco inferiore del plesso cervicale (radici
C8-D1) ed alcune sindromi vascolari da spasmo della succlavia.
C) La stenosi del canale vertebrale
La
sintomatologia è correlata alla sede della compressione; se sono
interessate le vie piramidali si ha paresi spastica che coinvolge gli
arti inferiori nei casi di compressione toracica, gli arti inferiori
e talora anche i superiori nei casi di compressione cervicale. la
lesione delle corna anteriori determina fascicolazioni, paresi
flaccida e atrofia dei muscoli innervati da quel segmento di midollo,
ad esempio del deltoide e del bicipite brachiale in caso di lesione
di C5 e C6. La lesione dei fasci spino-talamici determina disturbi
della sensibilità termodolorifica. Il decorso è in genere lento,
con inizio torpido, ma nel caso (raro) di ernia del disco posteriore
può essere acuto. TC e RM costituiscono i presidi diagnostici
dirimenti.
D) La lombalgia
La
lombalgia, che corrisponde al low back pain, il dolore è localizzato
al rachide lombare, nella zona compresa tra il margine inferiore
delle ultime coste e la regione glutea. Il dolore si accentua con la
pressione locale e con i tentativi di mobilizzazione. Se il dolore è
intenso si associa contrattura delle masse muscolari paravertebrali,
con atteggiamento obbligato del rachide in flessione anteriore o
laterale, e rigidità del tronco. La lombalgia risulta causata da
un’ernia discale in circa il 10 % dei casi; nella maggioranza degli
altri casi la causa non è determinabile.
La
lombalgia può instaurarsi acutamente senza causa apparente, o in
conseguenza di uno sforzo. I meccanismi che si ritengono più
implicati sono: una distensione acuta delle fibre dell’anulus e del
legamento longitudinale posteriore, oppure una distorsione delle
articolazioni interapofisarie con piccole lesioni ligamentose o
capsulari. L’esordio acuto può essere particolarmente intenso, ma
la durata dell’affezione è in genere breve, nella forma più
comune regredisce in 2-3 settimane, in qualche caso il dolore può
persistere. In linea generale se dura più di 4 settimane si parla di
una forma sub-cronica, dopo 3 mesi di forma cronica.
La
lombalgia cronica può derivare dal protrarsi smorzato di una forma
acuta, o può insorgere direttamente con caratteri di dolore
subcontinuo con fasi alterne di miglioramento ed esacerbazione. In
molti casi la persistenza del dolore diviene esasperante ed
interferisce fortemente sul benessere, sulla qualità della vita, e
sulla capacità lavorativa della persona interessata.
E) La lombosciatalgia e la lombocruralgia
Il
dolore lombare può irradiarsi verso l’arto inferiore come
lombosciatalgia con distribuzione radicolare nei territori del nervo
sciatico (radici L5, S1 e plesso sacrale) e come lombocruralgia
(radice L4).Le radici nervose nel loro percorso tra la fuoriuscita
dal midollo e la fuoriuscita dal forame di coniugazione prendono
stretto contatto con numerose strutture: i corpi vertebrali, il
disco, il ligamento longitudinale posteriore, l’articolazione
interapofisaria, l’osso del canale di coniugazione: ogni
alterazione strutturale di queste strutture può irritare o
comprimere la radice nervosa contigua.
Pertanto le cause della lombosciatalgia da considerare nella diagnosi differenziale sono numerose:
Pertanto le cause della lombosciatalgia da considerare nella diagnosi differenziale sono numerose:
- ernia discale
- artrosi intersomatica con osteofitosi che irrita la radice nervosa
- artrosi interapofisaria per osteofiti e per restringimento del forame di coniugazione
- anomalie congenite come sacralizzazione dell’ultima lombare, schisi della prima sacrale, spondilolisi e spondilolistesi
- spondilodisciti
- ematomi e neurinomi
- stenosi congenite ed acquisite del canale rachideo
PATOLOGIE ACUTE: LE ERNIE DISCALI
L’ernia
discale si verifica quando, sotto l’impulso di una sollecitazione
meccanica, il nucleo polposo del disco intervertebrale si fa strada
tra le fibre dell’anulus attraverso preesistenti deiscenze di
natura degenerativa e fuoriesce dal disco stesso, più spesso nella
zona posterolaterale lasciata scoperta dal rinforzo costituito dal
legamento longitudinale posteriore. Se il tessuto erniato comprime
una radice spinale compare la sintomatologia. La sede più frequente
di ernie discali riguarda il disco posto tra l’ultima vertebra
lombare e la prima sacrale, seguono le ernie del disco L4-L5 (insieme
costituiscono più del 90 % delle ernie discali) ed L3-L4.
Dal
punto di vista anatomo patologico è interessante ricordare che
l’esame del tessuto erniato permette di distinguere tra un’ernia
recente ed un’ernia inveterata; il discrimine tra le due forme è
costituito dalla ricchezza in acqua del tessuto erniato che, se è
recente, appare biancastro, elastico, lucente ed è associato ad
edema della radice compressa; se non è recente appare giallastro,
opaco, anelastico contiguo ad una radice nervosa assottigliata ed
aderente al grasso periradicolare. Questa particolarità è sfruttata
dalla RM, in quanto tale tecnica diagnostica è capace di
discriminare le immagini in base al contenuto di acqua nei tessuti.
Il riscontro nelle sequenze T2-dipendenti di alta intensità di
segnale a livello dell’ernia depone per la presenza di una quota di
edema che risulta tipica delle ernie acute; al contrario il riscontro
di bassa intensità di segnale depone per fenomeni fibrotici
indicativi di una condizione di cronicità.
La
sintomatologia dolorosa lombare si accentua in genere alla
digitopressione, è causa di rigidità del rachide lombare per
contrattura antalgica della muscolatura, si irradia all’arto
inferiore lungo il dermatomero corrispondente alla radice
interessata:
L4:
lombocruralgia ovvero dolore lungo la faccia interna della coscia
fino al ginocchio (associata ad ipotonia del quadricipite che rende
ipoevocabile il riflesso rotuleo).Il dolore si accentua con la
manovra di Wassermann (iperestensione dell’arto sul bacino a
ginocchio esteso)..
L5:
lombosciatalgia, ovvero dolore lungo la faccia posteroesterna della
coscia, laterale della gamba e dorsale del piede fino all’alluce; è
associata a deficit dei muscoli anteriori della gamba che ostacola la
marcia sui talloni. Il dolore si accentua per “stiramento” delle
radici, mediante la manovra di Lasegue (estensione del ginocchio a
coscia flessa sul bacino). E’ in genere ostacolata la marcia sui
talloni.
S1:
lombosciatalgia, ovvero dolore lungo la faccia posteriore della
coscia, posteriore della gamba e plantare del piede fino al V dito:
si associa a deficit del tricipite surale. Il dolore si accentua per
“stiramento” delle radici, mediante la manovra di Lasegue
(estensione del ginocchio a coscia flessa sul bacino). E’ in genere
ostacolata la marcia sulle punte dei piedi.
Le
ernie discali si presentano come patologie acute che pongono una
serie di problemi legati al loro inquadramento come infortuni sul
lavoro.
Il
primo passo per un corretto inquadramento è la identificazione della
causa violenta responsabile della lesione dell’anulus e della
protrusione del nucleo polposo. La condizione più frequente si
riferisce ad ernie discali comparse acutamente a seguito di un atto
lavorativo svolto con busto in flessione con consistente impegno di
forza muscolare, come nel caso di un infermiere che è colto da
lombalgia acuta mentre solleva dal letto un paziente non
autosufficiente.
Per
definire la causa violenta va analizzato il gesto tecnico associato
alla sintomatologia per tentare di distinguere due differenti
condizioni: "l’atto di forza” identificabile come comune
impiego di energia muscolare richiesta per l’espletamento di un
normale atto lavorativo, ben distinta dallo “sforzo” vero e
proprio inteso come atto lavorativo straordinario che presuppone un
impegno muscolare improvviso, abnorme ed imprevisto, molto superiore
a quello del “normale” impegno muscolare tipico dell’atto di
forza.
Il
problema potrebbe essere esemplificato in questi termini: lo sforzo
appare dotato di una dignità etiologica sufficiente a configurare la
causa violenta propria dell’infortunio, mentre l’atto di forza
non ha di per sé i caratteri della causa violenta.
Una
prima considerazione che limita il valore della semplificazione
riguarda il fatto che non è possibile quantificare in termini
assoluti le due condizioni, che vanno evidentemente correlate alla
persona vittima dell’evento acuto; ad esempio movimentare un
paziente non autosufficiente di 80 kg può essere relativamente
agevole per un robusto infermiere maschio (non da solo), ma può
divenire uno sforzo vero e proprio per una infermiera (non da sola)
dalla corporatura minuta.
Una
seconda critica riguarda il fatto che l’atto di forza può assumere
una vis
lesiva
sufficiente a considerarsi come sforzo quando la persona colpita si
trovi in una condizione temporanea o permanente che possa favorire
l’erniazione del disco; ad esempio nel caso di un autotrasportatore
che si china a sollevare una valigia dopo un viaggio di molte ore; in
questo caso la muscolatura paravertebrale si trova in una condizione
di ipotonia che favorisce la protrusione e la rottura del disco per
effetto di una transitoria turbativa dell’equilibrio delle forze
che agiscono sul disco. Un secondo esempio è quello di un
trattorista sottoposto a microtraumatismi delle strutture
osteoarticolari della colonna e dell’anulus per effetto delle
vibrazioni trasmesse a tutto il corpo dal trattore in movimento; in
questo caso un uno sforzo che superi anche di poco le caratteristiche
dinamiche dell’atto di forza può produrre una rottura dell’anulus
con fuoriuscita del nucleo polposo.
Una
ulteriore questione deriva dalla nozione che una sollecitazione in
flessione forzata della colonna non ha mai una vis lesiva sufficiente
a causare un’ernia discale se l’anulus è perfettamente integro,
ovvero al contrario se c’è un’ernia discale vuol dire che c’è
una preesistente alterazione degenerativa dell’anulus che si
considera come momento concausale significativo nella genesi
dell’ernia. Questa nozione può essere utilmente applicata in tutti
i casi di ernia del disco insorti in persone che lavorano in attività
a rischio per la colonna, in quanto il lavoro diviene responsabile
sia della condizione acuta (atto di forza / sforzo) sia della
condizione favorente (alterazione degenerativa dell’anulus). A
questo proposito l’esempio del trattorista sembra calzante.
Un
problema che si è posto in passato riguarda la valutazione degli
esiti di un’ernia del disco nel caso in cui la persona affetta si
fosse rifiutata “senza giustificato motivo” di sottoporsi ad
intervento chirurgico. Ebbene negli ultimi anni si è avuto un
sensibile ridimensionamento dei criteri di indicazione
all’intervento, dato che in gran parte dei casi, in assenza di
fatti paretici, la sintomatologia regredisce spontaneamente. Dunque
la valutazione degli esiti attualmente deve essere effettuata caso
per caso senza riporre eccessivo significato all’adesione ad una
proposta di terapia chirurgica. Peraltro attualmente la valutazione
del danno conseguente ad un’ernia discale è meno complessa per
l’adozione delle tabelle del danno biologico. Due casi di personale
osservazione esemplificano la complessità del problema.
Caso
N°1: 48enne, pediatra ospedaliero. Nel maggio 1998 compare una
lombosciatalgia bilaterale associata a cruralgia sinistra, che dura
varie settimane. La RM evidenzia segni di discopatia degenerativa
L4-L5 ed L5-S1. Nel gennaio 2001 compare una grave sciatalgia
bilaterale che dura 4 mesi. Una seconda ed una terza RM sono
sostanzialmente invariate rispetto alla precedente. Nel maggio 2001 i
sintomi regrediscono ed il pediatra riprende il lavoro. Nel luglio
2001, durante un turno di guardia nel reparto di terapia intensiva
pediatrica, un meccanismo d’allarme avverte che il respiratore
automatico di un piccolo paziente non funziona, con imminente
pericolo di vita. Il pediatra interviene d’urgenza, ed in tempi
concitati con la mano sinistra ventila il bambino con un palloncino
manuale e con la mano destra riattiva il ventilatore meccanico
esercitando un certo sforzo, il tutto con il busto flesso a 90° e
ruotato di 40° .Dunque sforzo in flessione e torsione del busto in
posizione squilibrata, in emergenza. Compare una lombocruralgia
ipearcuta con blocco lombare in flessione. La RM dimostra una ernia
discale L3-L4 che comprime la radice L3. Per la persistenza dei
sintomi viene effettuato intervento che determina immediato
miglioramento dei sintomi. In una prima istanza l’INAIL respinge la
domanda di riconoscimento di infortunio per mancanza di causa
violenta.
Caso
N°2: 41enne, autotrasportatore. Dal luglio 1998 trasportatore in
proprio di carni bovine macellate. Ogni giorno trasportava a spalla
dal furgoncino alle celle frigorifere 20-30 “quarti di bue” del
peso di 30-120 Kg, con il collo fortemente reclinato. Nel dicembre
1998, durante un trasporto a spalla, comparve una cervicobrachialgia
acuta sinistra. La RM evidenziò ernia del disco cervicale C5-C6 con
elettroneurografia positiva per radicolopatia C6 .In prima istanza l’
INAIL respinge una la domanda (tardiva) di riconoscimento di
infortunio.
I FATTORI DI RISCHIO NON PROFESSIONALI
Le
patologie della colonna da sovraccarico funzionale sono un esempio
tipico di affezioni a genesi multifattoriale; la resistenza della
cartilagine è l’elemento critico per l’innesco del processo
degenerativo. Possono concorrere a danneggiare il trofismo della
cartilagine varie condizioni:
- fattori anagrafici
- fattori ormonali (ipotiroidismo, menopausa)
- fattori generali (sedentarietà, eccesso ponderale, ereditarietà, gravidanze)
- dismorfismi della colonna (scoliosi, spondilolisi, asimmetrie da dismetria degli arti)
- pregressi traumi o interventi sulla colonna
- attività sportive (sport motoristici, atletica pesante, tuffi, canoa, rugby, sport agonistici in genere).
- Fattori patologici acquisiti (spondilodisciti, osteoporosi, neoplasie)
I FATTORI DI RISCHIO PROFESSIONALI
I
fattori di rischio professionali sono inquadrabili in varie
categorie: la movimentazione o il sollevamento manuale dei carichi,
l’esposizione a vibrazioni trasmesse a tutto il corpo, le posture
protratte ed i movimenti e torsioni abnormi del tronco.
Il
NIOSH nel 1997 ha studiato 5 gruppi di attività lavorative ritenute
a rischio elevato per la colonna ed ha stilato una classifica delle
attività in cui l’evidenza di un ruolo causale fosse più o meno
forte.
Attività
lavorativa
|
Rischio
per la colonna vertebrale
|
Sollevamento
manuale di carichi
|
Forte
evidenza
|
Vibrazioni
trasmesse a tutto il corpo
|
Forte evidenza |
Frequenti
flessioni e torsioni
|
Forte
evidenza
|
Lavoro
fisico pesante
|
Evidenza
sufficiente
|
Posture
di lavoro statiche
|
Evidenza
insufficiente
|
A) Movimentazione manuale di carichi
La
movimentazione dei carichi si riferisce all’atto lavorativo di
trasportare, sostenere, sollevare, deporre, spingere, tirare,
spostare: se tali atti si ripropongono con continuità e nell’ambito
della vita lavorativa si protraggono per una durata di anni,
determinano forze compressive sulle strutture del rachide lombare che
possono condurre a microlesioni, innescare il meccanismo dell’usura
precoce ed anticipare i processi parafisiologici di invecchiamento
strutturale.
Per
la valutazione del rischio delle attività che comportano
movimentazione di carichi in un futuro relativamente prossimo sarà
possibile utilizzare i dati del “documento di valutazione del
rischio” introdotto in Italia con il D. Lgs 626/94, nel quale il
datore di lavoro deve analiticamente esporre e valutare l’intero
profilo di rischio cui ciascun lavoratore è esposto ed in
particolare i rischi per la colonna vertebrale definiti nel titolo V
del decreto. Al momento della sua entrata in vigore fu introdotto, a
proposito dei carichi, un valore di riferimento pari a 30 kg che, in
molti contesti lavorativi, è stato favorevolmente “destabilizzante”
in quanto ha eliminato abitudini antiche e realmente dannose (basti
pensare al trasporto a spalla di sacchi di cemento da 50 kg) radicate
nella routine operativa di attività tradizionali come l’edilizia,
ed ha spinto molte industrie a produrre materiali confezionati in
modo tale da non superare i 25-30 kg. Ricordiamo come riferimento che
i cariche che possono essere sollevati hanno un valore limite di 30
kg per l’uomo (D.Lgs 626/94) e di 20 kg per la donna (Legge
653/1934).
Numerose
ricerche di fisiopatologia hanno rilevato che sul disco tra L3-L4 di
una persona di 70 kg distesa si scarica un peso di circa 30 kg se
distesa, di 70 kg se in piedi, di 100 kg se seduta senza supporto
lombare, di 185 kg se in piedi con tronco flesso di 20° e con un
peso di 10 kg, di 340 kg se in piedi con il tronco flesso per
sollevare un peso di 20 kg. Un importante riferimento a questo
proposito riguarda i valori di riferimento indicati dal NIOSH per la
movimentazione dei carichi: partendo dal presupposto che i dischi
intervertebrali dei maschi con meno di 40 anni sono in grado di
sopportare carichi fino a 600-700 kg (nelle donne il limite si
riduce del 17 %), il NIOSH ha proposto un action limit corrispondente
a 275 kg per le donne e 400 kg di carico lombare al disotto del quale
non sono prevedibili effetti avversi per le strutture della colonna,
ed un limite massimo di 650 kg di carico lombare che non deve essere
mai superato. L’Ente americano ha predisposto un protocollo
applicabile alla totalità delle attività in cui vengono sollevati e
movimentati oggetti pesanti, che prende in considerazione tutte le
variabili in gioco in una determinata operazione (peso sollevato,
distanza dal corpo, ripetitività del gesto, postura, dislocazione
verticale, dislocazione angolare, ecc.) e permette di esprimere con
un singolo valore numerico (indice di sollevamento) la intensità del
rischio che quella determinata operazione comporta. L’indice è
stato pensato con finalità preventive, in quanto permette di
esaminare ed eventualmente modificare i determinanti del rischio da
movimentazione, tuttavia presenta notevole interesse anche in ambito
diagnostico, in quanto, se noto, permette di correlare al lavoro
eventuali lesioni da sovraccarico funzionale della colonna.
I
principali contesti lavorativi a rischio di sovraccarico funzionale
del rachide da movimentazione manuale di carichi sono:
- Lavori di facchinaggio (porti, aeroporti, traslochi, spedizioni)
- Lavori di magazzinaggio (depositi, archivi)
- Lavori di carico e scarico di merci (supermercati, mercati generali)
- Lavori edili, di cava e di miniera con movimentazione di materiali
- Industria forestale e del legname
- Industria metallurgica e manifatturiera
- Industria alimentare: immagazzinamento di vegetali freschi, di prodotti alimentari confezionati. Industria delle carni
- Fornai e panettieri che movimentano sacchi di farina
- Produzione di vino, birra e bevande (movimentazione di bottiglie, barili, barattoli, contenitori)
- Lavori agricoli
- Lavoro infermieristico in reparti ospedalieri con persone allettate o poco collaboranti
I lavori di facchinaggio e di magazzinaggio e le operazioni di movimentazione e sollevamento di materiali pesanti divengono fattori di rischio quando vengono svolti con continuità e come attività prevalente, senza mezzi di ausilio e se i piani su cui i materiali sono immagazzinati sono eccessivamente alti o bassi.
B) Sovraccarico biomeccanico del rachide nel personale infermieristico
Le
patologie da sovraccarico del rachide negli infermieri e nel
personale di assistenza sono causate dalla specificità del lavoro di
infermiere che richiede carichi di lavoro fisico sostenuti per
“movimentare” pazienti allettati non collaboranti, che talvolta
si oppongono alle manovre infermieristiche moltiplicando il carico di
lavoro, maneggiare attrezzature e materiali pesanti ed ingombranti,
spesso in condizioni ergonomiche sfavorevoli dal punto di vista
posturale e degli spazi di movimento limitati; trovarsi ad operare
spesso da soli e senza aiuto. A ciò devono aggiungersi condizioni
favorenti che accentuano lo sforzo, quali la fatica che viene alla
fine del turno, il lavoro notturno, la debolezza muscolare,
alterazioni della funzionalità articolare, condizioni di stress
psico-fisico tipiche dell’assistenza a persone sofferenti. E’
noto che lo stress porta ad un inconsapevole incremento della
tensione muscolare che a sua volta favorisce la comparsa di fatica e
di disagio. Sollevare un paziente svenuto e caduto in terra in una
stanza da bagno ospedaliera esemplifica una condizione non rara che
presenta tutti i connotati della situazione critica.
Determinanti del rischio di sovraccarico della colonna vertebrale per il personale infermieristico
- particolarità del “carico” da sollevare, sostenere, muovere, spostare
- limitata disponibilità di personale di assistenza
- intensità dello sforzo richiesto
- posizione del corpo (flesso/ruotato) durante i compiti lavorativi a rischio
- ampiezza del movimento richiesto
- distribuzione delle forze su superfici estese
- ripetitività dei compiti lavorativi a rischio
- inadeguatezza delle strutture (letti, sussidi, spazi)
- limitata conoscenza delle tecniche di movimentazione
- impiego di attrezzature pesanti ed ingombranti
- condizioni personali di ipersuscettibilità
- stress da fatica, da turni a rotazione, da pluralità di compiti
- stress da assistenza a persone sofferenti
Il
fatto che l’oggetto della movimentazione sia costituito da una
persona malata rende di per sè l’operazione complessa; se il
personale disponibile per l’assistenza fosse numeroso il problema
sarebbe risolto, ma la relativa limitatezza delle risorse disponibili
per l’assistenza in genere non permette di risolvere il problema
aumentando il personale.
L’intensità
dello sforzo richiesto per movimentare un paziente non collaborante
nel letto o nei passaggi letto-carrozzina, o letto-letto, o
carrozzina-in piedi, è molto elevata. E’ massima nel sollevare un
paziente da terra con tre operatori, è molto alta nelle altre
movimentazioni; la disponibilità e l’impiego di ausili, come
elevatori meccanici e cinture ergonomiche riduce il carico ad un
terzo, un quarto.. Studi biomeccanici hanno valutato che spostare un
paziente non collaborante corpulento può comportare un carico sui
dischi intervertebrali tra 800 e 1000 kg, quando il valore di carico
di rottura che per l’uomo è di circa 600 kg e nelle donna circa
400.
Il
fatto che durante la movimentazione assistita dei pazienti
ospedalizzati si debbo operare con il tronco flesso e ruotato,
l’ampiezza del movimento richiesto, il fatto che le forze per
movimentare il paziente non si concentrano in un'area limitata, ma si
distribuiscono su tutto il corpo, il fatto che le operazioni si
svolgono spesso in spazi ristretti, talvolta ingombri di attrezzature
(basta pensare ad una sala operatoria) sono tutti elementi che
amplificano la dimensione del rischio.
Tra
i fattori generali che interferiscono sul problema va citata la
limitata conoscenza delle tecniche di movimentazione, che potrebbe
portare ad un certo contenimento dei carichi e la condizione di
stress che condiziona spesso l’esercizio della professione
infermieristica, stress legato a fatica, turni, condizioni personali
di ipersuscettibilità, pluralità di compiti ed in particolare
stress legato all’assistenza a persone sofferenti.
Il
problema generale e la situazione italiana sono stati esaminati in
maniera approfondita in un numero monografico de La Medicina del
Lavoro (Vol.90, pag. 96-435, 1999) che mantiene dopo tre anni tutta
la sua attualità
Affidabili
statistiche svedesi mostrano che nel personale ospedaliero i
disturbi muscoloscheletrici compaiono il doppio delle volte rispetto
a tutti gli altri lavoratori e che in una popolazione giovane di
infermieri con età tra 30 e 40 anni c’è stato almeno un episodio
di mal di schiena durante la vita lavorativa nel 60-80 % dei casi,
mentre nella popolazione svedese di pari età tale percentuale non
supera il 10 %.
Secondo
dati citati dall’ILO, confrontando la percentuale di infermiere con
mal di schiena in un dato giorno in Germania e Norvegia si trovò che
in Germania era doppia (51 % ) rispetto alla Norvegia (24 %); la
differente frequenza risultò ben spiegata analizzando le differenti
condizioni di lavoro nei due paesi. In Germania il rapporto
infermiere/pazienti assistiti era infatti il doppio rispetto alla
Norvegia, il numero di letti regolabili in altezza era la metà, il
numero di elevatori disponibili era sensibilmente minore. Lo studio
sembra esemplare per dimostrare da una parte il rapporto di causalità
tra organizzazione del lavoro e danni della colonna, ovvero che il
mal di schiena era strettamente correlato ad un eccessivo carico di
lavoro, e dall’altra, per mostrare, sia pure indirettamente, la
giusta direzione da seguire per la prevenzione.
L’insieme
di questi elementi porta a ritenere che il personale infermieristico
ed il personale di assistenza in generale (comprendendo in questo
termine anche chi assiste bambini e persone handicappate, chi
effettua assistenza domiciliare, personale di reparti di
riabilitazione, ecc.) è da considerare tra le categorie più a
rischio di sviluppare patologie della colonna lavoro-correlate.
C) Vibrazioni trasmesse a tutto il corpo
Si
stima che il 4-7% della popolazione lavorativa in nordamerica ed in
alcuni Stati Europei è esposta a vibrazioni trasmesse a tutto il
corpo di elevata intensità; studi epidemiologici hanno evidenziato
per questi lavoratori un rischio elevato per la colonna vertebrale;
in particolare si tratta di trattoristi e addetti a macchine di
movimento terra esposti a vibrazioni tramite il sedile di guida. L’
incremento di rischio per i trattoristi è legato anche al fatto che
essi sono esposti a vibrazioni mentre la colonna vertebrale è
spesso ruotata in modo da permettere di controllare con lo sguardo le
operazioni che si svolgono alle spalle del trattore dove sono
collegati gli utensili che operano sul terreno (fresatrici, aratri,
livellatrici, ecc.).
Il
meccanismo che si ritiene alla base dell’usura della colonna è
costituito dal trauma vibratorio che causa un sovraccarico
biomeccanico dovuto a fenomeni di risonanza del rachide
nell’intervallo di frequenza tra 5 e 15 Hz, con conseguente lesioni
a carico del corpo vertebrale, del disco e delle articolazioni
intervertebrali.
Secondo
le recenti (2002) Linee Guida della SIMLII il ruolo delle vibrazioni
trasmesse al corpo intero nella genesi delle alterazioni del rachide
non è completamente chiarito perché la guida di macchine o veicoli
comporta non solo l’esposizione a vibrazioni potenzialmente
dannose, ma anche l’esposizione a fattori di stress ergonomico
quali le posture statiche protratte, e frequenti movimenti di
flessione e torsione del rachide. Inoltre alcune categorie come gli
addetti ad attività di trasporto in vari settori commerciali possono
svolgere anche operazioni di movimentazione manuale di carichi che
rappresentano un ulteriore fattore di stress per la colonna. Anche
nel caso delle vibrazioni trasmesse a tutto il corpo si pone il
problema della pluralità dei fattori causali, che in parte sono
ricollegabili al lavoro, in parte legati a caratteristiche
individuali (età, peso corporeo, pregressi traumatismi, abitudini
voluttuarie, sport) e a livello di diagnosi etiologica non è facile
separare gli uni dalle altre.
I
risultati di studi epidemiologici attualmente disponibili depongono
per una maggiore frequenza di LBP nei conducenti di veicoli
industriali e di mezzi di trasporto rispetto a gruppi di persone non
esposte a vibrazioni. La letteratura è concorde sul fatto che esiste
una forte evidenza epidemiologica che depone per l’associazione tra
patologie degenerative del rachide ed esposizione professionale a
vibrazioni trasmesse a tutto il corpo. In particolare è stato
evidenziato un aumentato rischio di lombalgie, lombosciatalgie,
spondiloartrosi, osteocondrosi intervertebrale, discopatie ed ernie
discali lombari e lombosacrali. Il rischio sembra essere ben
correlato con l’aumento della durata e dell’intensità delle
vibrazioni.
I
parametri valutativi dell’esposizione a vibrazioni sono numerosi;
ciò che viene valutato in genere è la frequenza della vibrazione
(compresa tra 1 e 80 Hz), l’intensità della vibrazione lungo la
componente assiale dominante, ed il parametro A (8) ovvero
l’accelerazione equivalente ponderata in frequenza riferita ad 8
ore di lavoro ed espressa in metri al secondo al quadrato. I livelli
di rischio previsti in via provvisoria da una direttiva UE in corso
di definizione sono i seguenti:
Livello
di soglia A(8) = 0,25 m/s2
Livello
di azione A(8) = 0,5 m/s2
Valore
limite A(8) = 0,7 m/s2
Livello
di rischio rilevante: 1,25 m/s2
Il
livello di soglia rappresenta un limite tendenziale finalizzato alla
riduzione del rischio, ovvero il limite al disotto del quale
un’esposizione permanente o ripetuta non ha conseguenze negative
sulla salute del soggetto esposto.
Il
livello d’azione rappresenta il valore al disopra del quale devono
essere attuate specifiche misure di tutela per i lavoratori esposti.
La Direttiva Macchine recepita in Italia come DPR 459/96 indica
questo valore come livello d’azione ai fini della prevenzione dei
rischi da vibrazioni trasmesse all’intero corpo.
Il
valore limite rappresenta il livello di esposizione il cui
superamento è vietato in quanto comporta rischi inaccettabili per un
soggetto esposto in assenza di dispositivi di protezione specifici.
Il
livello di rischio rilevante indica che esposizioni a questo livello
anche di brevissima durata devono essere proibite.
In
attesa di emanazione della Direttiva europea le Linee Guida dell’
ISPESL consigliano di adottare come valore limite di esposizione una
A(8) pari a 0,9 m/s2. Secondo l’ ISPESL si possono individuare tre
differenti classi di rischio o fasce di esposizione: Classe 0)
Esposizione personale inferiore a 0,5 m/s2; Classe 1) Esposizione
personale compresa tra 0,5 e 0,9 m/s2; Classe 2) Esposizione
personale superiore a 0,9 m/s2.
Le
attività lavorative con rischio di sovraccarico della colonna
vertebrale causato da vibrazioni trasmesse al corpo intero sono:
- Conduzione di trattori agricoli e mezzi cingolati in genere
- Conduzione di veicoli fuori strada: macchine per il movimento terra, escavatori, livellatori, bull-dozers, ruspe, pale meccaniche, rulli compressori, macchine forestali, per miniera e per cava.
- Conduzione di carrelli elevatori
- Guida di autotreni, autocarri, furgoni, autobus, tram, betoniere.
- Pilotaggio di elicotteri, aerei
- Conduzione di treni
Guida di motoscafi veloci
- Guida di automobili.
Lavori che comportano rischi posturali e movimenti e torsioni del tronco
Si
tratta di un ambito molto meno definito degli altri precedenti;
tuttavia per alcune attività esistono evidenze di sovraccarico
biomeccanico della colonna particolarmente intenso, causato da
posture mantenute per tempi protratti, e da movimenti frequenti e
ripetitivi con torsioni del tronco.
Attività
a rischio di sovraccarico funzionale della colonna da postura fissa
o da movimenti e torsioni del tronco.
- Alcuni lavori d’ufficio con posture fisse e prolungate
- Lavori edili di pavimentazione
- Lavori agricoli di raccolta di frutta e di olive, di trattamenti manuale in frutticoltura.
- Allevamento di pollame
- Attività artistiche come la danza e alcuni ruoli di maestro d’orchestra
Il
meccanismo patogenetico per il quale le posture fisse divengono un
fattore di rischio si impernia sulla disfunzione dei sistemi di
nutrizione del disco intervertebrale e sulla conseguente precoce
usura; si è detto infatti che la nutrizione delle strutture discali
risulta efficace solo quando queste soggiacciono ad un alternarsi
continuo di periodi di carico (fuoriuscita di acqua e soluti) e di
scarico (ripristino del contenuto interno di acqua e nutrienti),
mentre invece sono ostacolati nella loro funzione quando la postura
fissa impone una pressione di carico relativamente costante.
Non
ci sono al momento elementi sufficienti per affermare che la postura
relativamente fissa imposta dalla maggior parte delle attività
tipiche del lavoro d’ufficio possa ritenersi responsabile di
patologie della colonna lavoro correlate, anche se, come sempre, la
valutazione va effettuata caso per caso.
Diversa
è la situazione di alcune attività agricole quali la raccolta della
frutta, molte colture di alberi da frutta, alcuni tipi di raccolta
delle olive, in cui è presumibile una quota significativa di rischio
da postura, da torsioni del busto e da sforzo protratto. Così pure
alcuni lavori edili quali la pavimentazione, la posa in opera di
parquet o di moquettes. L’allevamento di polli è citato dall’ILO
come esempio di movimento ripetitivo del busto, in quanto
l’operatore è costretto a svariate centinaia di flessioni del
tronco per prendere o comunque venire a contatto con gli animali che
si oppongono alla presa e sono in continuo movimento.
La
pesante attività motoria dei tersicorei sottopone il loro apparato
osteoarticolare a continue sollecitazioni che nel tempo si
trasformano in veri e propri fattori di rischio da usura precoce. In
una statistica nordamericana risulta che le richieste di
riconoscimento si riferivano prevalentemente ad infortuni, cui i
danzatori sono particolarmente esposti (accident prone) di invalidità
per low-back pain sono il 22% del totale e di dolore cervicale nel 12
%.
I CRITERI DIAGNOSTICI
Il
percorso diagnostico da seguire nei singoli casi in cui si pone il
problema di valutare quale ruolo ha avuto il lavoro nella genesi di
una patologia rachidea da sovraccarico biodinamico segue quello
tradizionale della Medicina del Lavoro e della Medicina Legale.
L‘anamnesi
deve comprendere il numero di episodi acuti di lombalgia a partire
dal primo, gli episodi minori e gli episodi acuti “mancati”.
L’anamnesi lavorativa deve comprendere in forma quanto più
possibile dettagliata la durata dei lavori a rischio, l’intensità
del rischio e, per quanto possibile, la durata delle fasi lavorative
particolarmente a rischio.
L’entrata
in vigore del D. Lgs 626 non sembra che al momento possa aiutare
nella quantificazione del rischio cui una persona è stata esposta,
perché il rischio attuale, eventualmente quantificato nel documento
di valutazione, non è indicativo delle condizioni di rischio dei
decenni scorsi, e di fatto, nel caso delle patologie
cronico-degenerative della colonna la durata dell’esposizione deve
ritenersi superiore ad un decennio per poter assumere la valenza di
fattore causale o concausale significativo. La principale utilità
del Decreto 626 a questo proposito è legata al fatto che ha
riportato all’attenzione di tutto il mondo del lavoro e della
prevenzione i problemi di sovraccarico della colonna, frequentemente
trascurati nel passato.
L’esame
obbiettivo deve comprendere la valutazione dell’andatura e della
postura, la palpazione delle aree dolenti, la valutazione della
forza, la valutazione della motilità articolare, la ricerca di segni
di interessamento radicolare o midollare.
Un
utile e valido strumento di procedura diagnostica in questi casi è
costituito dal documento “Linee guida per il riconoscimento
dell’origine professionale delle malattie da microtraumi e posture”
di G. Cimaglia, A, Balletta e Coll. della Sovrintendenza medica
generale INAIL, allegato alla Circolare 81/2000 della Direzione
centrale Prestazioni INAIL. Così pure è molto utile per una
approfondita valutazione del problema generale e della parte
diagnostica neurologica a radiologica il volumetto: “Le
spondiloartropatie del rachide dorso-lombare come malattia
professionale non tabellata” (Edizione INAIL 2000), di C.
Ottaviani, redatto in collaborazione con l’Istituto di Medicina del
Lavoro dell’Università dell’Aquila, diretto dal Prof. A.
Paoletti.
L’esame
clinico deve essere compendiato da una valutazione neurologica
specialistica con eventuali esami neurofisiologici e da una
valutazione radiologica. A questo proposito, in caso di mal di
schiena senza interessamento radicolare il BIT si sbilancia alquanto
affermando che “è
raro che RX e TC siano d’aiuto nella diagnosi dato che nella gran
parte dei casi l’origine del dolore risiede nei muscoli e nei
legamenti piuttosto che nelle strutture ossee. Di fatto è molto
frequente trovare anomalie ossee in individui che non hanno mai avuto
mal di schiena. Ascrivere il mal di schiena ad un assottigliamento
del disco o a spondilosi, può portare ad inutili trattamenti
eroici”. Pur
con le limitazioni di una frase estrapolata da un contesto il
messaggio del BIT è di non ritenersi soddisfatti da un’etichetta
di artrosi, ma di estendere l’indagine clinica a tutte le possibili
cause di mal di schiena, al fine di un inquadramento diagnostico e
terapeutico adeguato. Con le dovute riserve, questa posizione è
perfettamente calzante alla comune esperienza clinica di un enorme
numero di persone che si ritengono affette da “artrosi cervicale”,
attribuendo all’evidenza radiologica (spesso incerta) di
alterazioni ossee (spesso innocenti) sintomi e disturbi che del tutto
indipendenti dalle alterazioni ossee; esempi tipici sono la “cefalea
da cervicale” causata nella maggior parte dei casi da un ipertono
muscolare indipendente dall’artrosi, e le “vertigini da cervicale
“ che nella stragrande maggioranza dei casi trovano nell’artrosi
una giustificazione fisiopatologica del tutto inesistente.
L’esame
radiografico tradizionale rimane comunque un elemento diagnostico
imprescindibile in quanto permette subito di escludere lesioni
malformative, neoplastiche, ed alcune malattie infiammatorie; il suo
limite è legato alla capacita di rilevare solo alterazioni del
tessuto osseo, mentre le nuove tecniche TC ed RM consentono di
visualizzare le strutture articolari, sinoviali, nervose e vascolari.
Ciò ha esteso enormemente la qualità della diagnosi ed ha permesso
di confinare ad ambiti limitatissimi tecniche diagnostiche invasive
come la sacculoradicolografia, spesso indispensabile in passato. La
TC è spesso sufficiente, ma ha il limite di non visualizzare il
contenuto del sacco durale e dei canali radicolari; la RM permette
invece di visualizzare con visione multiplanare anche tali strutture
, con una specificità diagnostica superiore alla TC.
CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE
Dal
punto di vista terapeutico vi sono due posizioni contrapposte con
un’ampia quota di errore propria di tutte le generalizzazioni : la
prima si sintetizza nella espressione “il mal di schiena passa
lavorando” ed è errata in quanto in molti casi i problemi acuti
della colonna richiedono un trattamento immediato ed il riposo e
possono cronicizzarsi se sottovalutati, la seconda riguarda la durata
del periodo di riposo a letto in caso di LBP acuto: vi è piena
concordanza di opinioni sul fatto che il riposo a letto deve essere
limitato all’indispensabile, e che la attività quotidiane vanno
riprese appena possibile, sfiorando il limite di tollerabilità del
dolore prima di rimettersi a letto. Un inequivocabile “evidence
based” orientamento porta a ritenere che un allettamento
prolungato ed una ripresa del lavoro tardiva rallenta la guarigione
clinica ed influisce sfavorevolmente sul pieno recupero lavorativo.
La
terapia delle patologie della colonna lavoro correlate si basa
sull’integrazione di riposo, farmaci (antalgici, decontratturanti,
antinfiammatori), fisiochinesiterapia (calore, freddo, massaggi,
movimentazione passiva, ginnastica posturale, trazioni), chirurgia.
La maggior parte dei casi si risolvono spontaneamente e, secondo l’
ILO, indipendentemente dal tipo di terapia impiegata, ovvero non
esiste una terapia esclusiva o preferenziale, ma caso per caso il
medico curante o gli specialisti consultati dovranno costruire un
programma terapeutico individuale. Preme qui ricordare che al momento
in cui una persona assente dal lavoro per patologie della colonna
ritorna a lavorare, la possibilità di intervenire sul lavoro con
interventi ergonomici più approfonditi è la migliore garanzia per
il migliore recupero lavorativo e personale.
La
prevenzione delle malattie della colonna si deve basare
sull’applicazione di principi ergonomici, sull’uso di aiuti
tecnici (sollevatori muovibili, o fissi a soffitto, o a piano
mobile), sull’educazione fisica, sulla informazione e formazione
dei lavoratori sui rischi e sulle metodiche da adottare per
prevenirli, sul supporto sociale per le persone affette da LBP
(facilitazioni, back scools), su interventi mirati all’organizzazione
del lavoro che premettano di combattere insoddisfazione e disagio
lavorativo.
CRITERI PER IL RICONOSCIMENTO DEL RAPPORTO DI CAUSALITA’
Partendo
dalla fisiopatologia delle malattie della colonna, nei paragrafi
precedenti si sono delineati alcuni profili generali di rischio
riferiti a numerose categorie di lavoratori esposti a movimentazione
di carichi, a vibrazioni trasmesse a tutto il corpo, a posture fisse
o incongrue. In caso di esposizione protratta ed intensa a tali
fattori di rischio per questi lavoratori esiste una consistente
probabilità di sviluppare patologie da sovraccarico funzionale della
colonna correlate al lavoro.
La
genericità di questa proposizione non è facilmente superabile; i
suoi limiti si rendono subito evidenti quando si richiede una
diagnosi etiologica a livello di un singolo caso ed allora gli
orientamenti generali divengono subito insufficienti
Inoltre
è certo che nessun esame clinico o strumentale è in grado di
fornire parametri obbiettivi che permettano di riconoscere
agevolmente la sussistenza di un rapporto causale tra lavoro e
patologia della colonna in un determinato individuo. Tipico è il
caso della alterazioni del quadro radiologico che non sono in alcun
modo proporzionate alla gravità del quadro clinico; la stessa
tecnica diagnostica dell'RM ha mancato di portare contributi
innovativi nella ricerca del rapporto di causalità, nonostante lo
straordinario miglioramento nella qualità delle diagnosi; infatti la
RM ha portato all’evidenza di ernie discali nel 20 % delle persone
asintomatiche, a riprova che sintomi clinici ed alterazioni
strumentali non sempre collimano, anzi spesso sono del tutto
indipendenti.
Ma
allora come conciliare il giusto proposito di allargare la tutela
assicurativa a nuove categorie di lavoratori con l’esigenza di
essere rigorosi nel riconoscimento del rapporto causale? La risposta,
che non può essere risolutiva, si sviluppa a due livelli: sul piano
scientifico va proseguita ed affinata la ricerca epidemiologica per
delineare sempre meglio i profili generali di rischio; mentre invece
a livello diagnostico individuale si deve essere in grado di
effettuare una attenta diagnosi clinica, analizzare in dettaglio la
storia lavorativa ed i rischi cui il lavoratore è stato esposto
basandosi per quanto possibile su dati reali e non solo presunti,
metodo di indagine che è proprio della Medicina del Lavoro, ed
insieme soppesare in maniera ponderata rischi lavorativi e danni alla
salute seguendo la criteriologia del rapporto causale propria della
Medicina Legale. Si tratta di un percorso non nuovo che ancora una
volta richiede passione per affrontare un problema difficile e
competenza per risolverlo bene.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
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Società
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linee tematiche per l’attività dei medici del lavoro. Esposizione
a vibrazioni trasmesse all’ intero corpo.
65° Congresso Nazionale della Società. Messina, 2002.
ciao complimenti per l'articolo. Potresti indicarmi due articoli scientifici dei carichi e sovraccarichi che riguardano la colonna vertebrale e il mal di schiena, nel lavoro e nello sport?
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