Il Mobbing è spesso condotto con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro,
senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe causare imbarazzo
all’azienda) o per ritorsione a seguito di comportamenti non condivisi
(ad esempio, denuncia ai superiori o all’esterno di irregolarità sul
posto di lavoro), o per il rifiuto della vittima di sottostare a
proposte o richieste immorali (sessuali, di eseguire operazioni
contrarie a divieti deontologici o etici, etc.) o illegali.
Per potersi parlare di mobbing,
l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere
funzionale alla espulsione del lavoratore, causandogli una serie di
ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie
(disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da
stress) ad andamento cronico.
Va peraltro sottolineato che l’attività
mobbizzante può anche non essere di per sé illecita o illegittima o
immediatamente lesiva, dovendosi invece considerare la sommatoria dei
singoli episodi che nel loro insieme tendono a produrre il danno nel
tempo. In effetti, l’ingiustizia del danno, vale a dire dell’evento
lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’Ordinamento
giuridico, deve essere sempre ricercata valutando unitariamente e
complessivamente i diversi atti, intesi nel senso di comportamenti e/o
provvedimenti.
Si distingue, nella prassi, fra mobbing gerarchico e mobbing ambientale;
nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della
vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a
privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell’usuale dialogo
e del rispetto.
Si parla di mobbing verticale quando un superiore per licenziare un dipendente in particolare perché antipatico, poco competente e produttivo; e di mobbing orizzontale quando in ufficio un collega non è accettato per i diversi interessi sportivi oppure perché diversamente abile. Il mobbing strategico
si ha quando l’attività vessatoria e dequalificante tende ad espellere
il lavoratore, per far posto ad un altro lavoratore (di solito in
posizioni di dirigenza o apicali)
In ogni caso, il mobbing è riferibile
ad un complesso, sistematico e duraturo comportamento del datore di
lavoro, che deve essere esaminato in tutti i suoi aspetti e nella loro
conseguenzialità, per creare un coacervo di stimoli lesivi che non può
né deve essere frazionato o spezzettato in tanti singoli episodi,
ciascuno dei quali aventi un proprio effetto sanitario ovvero giuridico.
Anche perché si è soliti ammantare con solide motivazioni anche gli atti peggiori, sì da dare ad essi una parvenza di legittimità. Gli anzidetti concetti sono importanti per la dimostrazione giudiziale del mobbing.
Il primo a parlare di mobbing quale
condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro è stato
alla fine degli anni ’80 lo psicologo svedese Heinz Leymann che lo
definiva come una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera
sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un
singolo, progressivamente spinto in una posizione in cui è privo di
appoggio e di difesa.
Secondo
un’indagine del 1998, il 16% dei lavoratori inglesi denuncia di essere
vittima di mobbing; l’Italia è ultima nella classifica UE con un 4,2%.
Alcuni contratti sindacali, come quello dei metalmeccanici in Germania,
prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori
mobbizzati.
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