La pratica del mobbing sul posto di lavoro
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Secondo L’INAIL che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo qualificandolo come costrittività organizzativa
le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione
dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata
assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i
ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di
compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di
compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali
condizioni di handicap psico-fisici, l’impedimento sistematico e
strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e
sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro,
l’esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato
ed eccessivo.
E’ quindi chiaro che il mobbing non è
una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva
attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro
(pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il
lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
In
Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei
lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la
pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni
laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello
Statuto dei Lavoratori).
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