La pratica del mobbing sul posto di lavoro
La pratica del mobbing consiste nel
vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di
violenza psicologica o addirittura fisica. Ad esempio: sottrazione
ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro,
dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie,
ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa
autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del
lavoro; rimproveri e richiami, espressi in privato ed in pubblico anche
per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa
qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati;
interrompere il flusso di informazioni necessario per l’attività
(chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a
Internet); continue visite fiscali in caso malattia (e spesso al
ritorno al lavoro, la vittima trova la scrivania sgombra). Insomma, un
sistematico processo di “cancellazione” del lavoratore condotto con la
progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali
indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa.
Altri elementi che fanno configurare il mobbing, possono essere “doppi
sensi” o sottigliezze verbali quando si è in presenza del collega
oggetto di mobbing, cambio di tono nel parlare quando un superiore si
rivolge al collega vittima, dare pratiche da eseguire in fretta l’ultimo
giorno utile. Un esempio puo’ essere il seguente: un collega, in
presenza di altri colleghi, li invita ad una cena chiedendo ad ognuno di
loro “allora te l’ha detto Caio che stasera vieni con noi a cena?”,
mentre al collega mobbizzato gli dice invece “tu non vieni?”. Molte
volte succede che l’”ordine” di aggressione al collega mobbizzato viene
dall’alto ed è finalizzato alle dimissioni di qualcuno. In questo caso i
colleghi che effettuano il mobbing eseguono servilmente le disposizioni
del superiore anche se il collega mobbizzato non ha fatto niente di
male a loro. Tutte queste situazioni ed in genere gli attacchi verbali
non sono facilmente traducibili in “prove certe” da utilizzare in un
eventuale processo per cui è anche difficile dimostrare la situazione di
aggressione.
Secondo L’INAIL che per prima in Italia ha definito il mobbing lavorativo qualificandolo come costrittività organizzativa
le possibili azioni traumatiche possono riguardare la marginalizzazione
dalla attività lavorativa, lo svuotamento delle mansioni, la mancata
assegnazione dei compiti lavorativi o degli strumenti di lavoro, i
ripetuti trasferimenti ingiustificati, la prolungata attribuzione di
compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto o di
compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali
condizioni di handicap psico-fisici, l’impedimento sistematico e
strutturale all’accesso a notizie, la inadeguatezza strutturale e
sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro,
l’esclusione reiterata da iniziative formative, il controllo esasperato
ed eccessivo.
E’ quindi chiaro che il mobbing non è
una malattia ma rappresenta il termine per indicare la complessiva
attività ostile posta in essere solitamente da un datore di lavoro
(pubblico o privato, da solo o in combutta) per demansionare il
lavoratore, isolarlo e obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
In
Italia, le tutele al licenziamento o trasferimento in altre sedi dei
lavoratori sono maggiori che in altri Paesi ed è abbastanza diffusa la
pratica di ricorso al mobbing per indurre nel lavoratore le dimissioni
laddove il licenziamento è possibile solo per giusta causa (art.18 dello
Statuto dei Lavoratori).
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